Giotto di Bondone nacque da una famiglia di contadini nel 1267 che, come molte altre, si era inurbata a Firenze e, secondo la tradizione letteraria, finora non confermata dai documenti, aveva affidato il figlio alla bottega di un pittore, Cenni di Pepi, detto Cimabue, iscritto alla potente Arte della Lana, che abitava nella parrocchia di Santa Maria Novella.

Dovrebbe essere solo una leggenda l’aneddoto della “scoperta” del giovane pittore da parte di Cimabue, mentre disegnava con estremo realismo le pecore a cui badava, riportata da Lorenzo Ghiberti e da Giorgio Vasari.

Sul fatto che Cimabue sia stato maestro di Giotto ci sono solo indizi di tipo stilistico: la collaborazione nella bottega del maestro fiorentino avrebbe però consentito a Giotto di seguirlo a Roma nel 1280 circa, dove era presente anche Arnolfo di Cambio, e avrebbe potuto successivamente introdurlo nel cantiere di Assisi.

Giotto si sposò verso il 1287 con Ciuta (Ricevuta) di Lapo del Pela, dalla quale ebbe quattro figlie e quattro figli, dei quali uno, Francesco, divenne pittore.

La Madonna di San Giorgio alla Costa La prima tavola dipinta indipendentemente da Giotto in ordine cronologico è probabilmente la Madonna col Bambino di San Giorgio alla Costa (Firenze, oggi al Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte), che potrebbe essere anteriore agli affreschi di Assisi.

Per altri studiosi, invece, si tratterebbe di un’opera successiva al cantiere di Assisi ed anche alla Croce di Santa Maria Novella.

Questa opera mostra una solida resa della volumetria dei personaggi le cui attitudini sono più naturali che in passato; il trono è inserito in una prospettiva centrale, formando quasi una “nicchia” architettonica, che suggerisce un senso della profondità.

La novità del linguaggio di questa tavola, relativamente piccola e decurtata lungo tutti i margini, si comprende meglio facendo un raffronto con gli esempi fiorentini di Maestà che lo avevano immediatamente preceduto, come Coppo di Marcovaldo e Cimabue.

La Basilica di San Francesco di Assisi era stata completata nel 1253, con grandi interessi sia dei francescani, quale sede centrale dell’ordine, luogo di sepoltura del fondatore e meta di pellegrinaggio, sia del papato, che vedeva nei francescani dei fedeli alleati per rinsaldare il legame con i ceti più umili.

L’inizio della decorazione ad affresco non è conosciuto, per la distruzione degli antichi archivi nel XIX secolo, ma dovrebbe risalire agli anni tra il 1280 e il 1290.

Gli artisti, scelti direttamente dai papi, iniziarono dalla Basilica superiore.

Le Storie di Isacco I primi affreschi vennero realizzati nel transetto dalla bottega di Cimabue dove molto probabilmente doveva trovarsi anche il giovane Giotto.

La sua mano, in particolare, è probabile in due scene nella parte alta della navata con le Storie di Isacco (Isacco benedice Giacobbe e Isacco che scaccia Esaù che si trovano nella terza campata all’altezza della finestra), genericamente attribuite a un Maestro di Isacco, che aveva una particolare predisposizione alla resa volumetrica dei corpi, tramite un accentuato chiaroscuro, e che era capace di ambientare le proprie scene in un ambiente architettonico fittizio, disegnato secondo una prospettiva ed uno scorcio laterale basati sugli studi matematico prospettici in voga al tempo ed insegnati a Viterbo, alla corte pontificia, ove furono importati all’inizio del XIII secolo dai Maestri arabi.

Diversa è anche la tecnica usata: per la prima volta si usò l’affresco a giornate, anziché a pontate.

Alcuni indicano il Maestro di Isacco anche nelle figure del romano Pietro Cavallini o dello scultore Arnolfo di Cambio, gli unici che avessero mostrato di saper esprimere in maniera credibile i valori di volume e di coerenza spaziale nelle loro opere.

In seguito, la fascia inferiore della navata venne occupata dalle ventotto Storie di San Francesco databili tra l’ultimo decennio del XIII secolo ed i primi anni del XIV, un ciclo grandioso che stupì i contemporanei e segnò una svolta nella pittura occidentale.

Il ciclo illustra puntualmente il testo della Legenda compilata da san Bonaventura e da lui dichiarata unico testo ufficiale di riferimento per la biografia francescana.

Sotto ad ogni scena compariva (con il tempo si e’ quasi del tutto cancellata) una didascalia descrittiva tratta dai diversi capitoli della Legenda via via illustrati.

Questo ciclo è da alcuni considerato l’inizio della modernità e del dipingere latino.

La tradizione iconografica sacra, infatti, poggiava sulla tradizione degli iconografi greci, e quindi su un repertorio iconografico molto codificato nei secoli; il soggetto attuale (un santo moderno) e un repertorio di episodi straordinari (solo per fare un esempio: nessuno mai, prima di san Francesco, aveva ricevuto le stigmate) fecero sì che Giotto negli affreschi dovesse creare ex-novo modelli e figure, attingendo solo in parte ai modelli di pittori che si erano già cimentati in episodi francescani su tavola (come Bonaventura Berlinghieri o il Maestro del San Francesco Bardi).

Accanto a ciò va registrato il nuovo corso degli studi biblici (portati avanti proprio dai teologi francescani e domenicani) che prediligeva la lettura dei testi nel loro senso letterale (senza troppi simbolismi e rimandi allegorici) desiderando condurre il fedele ad un incontro il più possibile vivo ed immedesimativo con il testo sacro.

Ciò favorì la scelta di rappresentazioni in abiti moderni e che sottolieassero l’espressione del vissuto.

Il primo capolavoro fiorentino è la grande Croce di Santa Maria Novella, citata come opera giottesca in un documento del 1312 da tale Ricuccio di Puccio del Mugnaio e anche dal Ghiberti, ma probabilmente databile attorno al 1290 contemporaneo, quindi, alle Storie di San Francesco della Basilica Superiore.

È il primo soggetto che Giotto affronta in maniera rivoluzionaria, in contrasto con l’iconografia ormai canonizzata da Giunta Pisano del Christus patiens inarcato sinuosamente a sinistra.

Giotto invece dipinse il corpo morto in maniera verticale, con le gambe piegate che ne fanno intuire tutto il peso.

La forma non più nobilitata dai consueti stilemi divenne così assolutamente umana e popolare.

In queste novità è contenuto tutto il senso della sua arte e della nuova sensibilità religiosa che restituisce al Cristo la sua dimensione terrena e da questa trae il senso spirituale più profondo.

Solo l’aureola ricorda la sua natura divina, ma mostra le sembianze di un uomo umile realmente sofferente, con il quale l’osservatore potesse confrontare le sue pene.

In quegli anni Giotto era già un pittore affermato, capace di creare una schiera di imitatori in città, pur rappresentando soltanto l’anticipatore di una corrente d’avanguardia che si impose più tardi.

Il contesto toscano e fiorentino dell’epoca era animato da grandi fermenti innovativi, che influenzarono Giotto: a Pisa la bottega di Nicola Pisano e poi del figlio Giovanni aveva cominciato un percorso di recupero della pienezza della forma e dei valori dell’arte classica aggiornata con influssi gotici transalpini, mentre Siena, in contatto privilegiato con molti centri culturali europei, aveva visto l’innesto di novità gotiche sulla tradizione bizantina nella pittura di un artista del calibro di Duccio di Buoninsegna.

Di precoce datazione è considerata anche la tavola firmata proveniente da Pisa e conservata al Louvre di Parigi, raffigurante le Stigmate di San Francesco in cui le storie della predella sono direttamente riprese dalle scene assisiati: questo da taluni viene considerato motivo a sostegno della attribuzione del Ciclo francescano a Giotto.

Secondo viaggio a Roma Fino al 1300 c’è un vuoto di alcuni anni nella produzione di Giotto.

Alcuni critici hanno ipotizzato che potesse essere chiamato a Roma dai Papi, magari desiderosi di altre opere dell’artista dopo le realizzazioni ad Assisi, soprattutto in occasione del giubileo del 1300 indetto da Papa Bonifacio VIII.

Quindi può darsi che Giotto abbia lavorato a Roma tra il 1297 e il 1300, esperienza della quale non rimangono tracce significative e, per questo, non è possibile ancora giudicare la sua influenza sui pittori romani, o al contrario, quanto il suo stile venne influenzato dalla scuola romana.

Nella basilica di San Giovanni in Laterano è conservato, tuttavia, un piccolo frammento di un ciclo ben più vasto, forse riferibile a Giotto, a questo soggiorno a quello successivo.

Rientro a Firenze Da documenti catastali del 1301 e 1304 si conoscono le sue proprietà in Firenze, che erano cospicue e per questo si ipotizza che, all’incirca verso i trent’anni, Giotto fosse già a capo di una bottega capace di ovviare alle più prestigiose commissioni del tempo.

In questo periodo dipinse il Polittico di Badia (Galleria degli Uffizi) e, in virtù della fama diffusa in tutta l’Italia, venne chiamato a lavorare a Rimini e Padova.

La presenza di Giotto a Rimini non è databile con precisione ma si presume possa essere collocata tra gli anni di Padova ed il ritorno ad Assisi, prima o dopo il soggiorno padovano.

Sicuramente anteriore al 1309, viene collocato circa al 1303. A Rimini, come ad Assisi, lavorò in un contesto francescano, nella chiesa già di san Francesco, oggi nota come Tempio Malatestiano, dove dipinse un ciclo di affreschi perduto, mentre resta ancora nell’abside la Croce.

Confrontando il dipinto con le altre croci di Giotto (prime fra tutti la vicina Croce nella Cappella degli Scrovegni) appare chiaro come siano mancanti la cimasa e terminali(o capi croce), ritrovate invece da Federico Zeri nel 1957 nella collezione Jeckyll di Londra.

L’autografia della Croce non è condivisa da tutti gli studiosi: pur mostrando le qualità tipiche della sua pittura, potrebbe trattarsi di un’opera di bottega come molte uscite con la sua firma e dipinta da un suo disegno.

Il soggiorno di Rimini è importante, soprattutto, per l’influenza esercitata sulla locale scuola pittorica e miniatoria detta appunto scuola riminese, che ebbe tra i maggiori esponenti Giovanni e Pietro da Rimini.

Proprio da una Croce di Giovanni, visibilmente derivata da Giotto e dalla sicura datazione al 1309, si è potuto porre il limite massimo alla presenza di Giotto in città.

Del soggiorno padovano sono perduti gli affreschi della Basilica di Sant’Antonio e del Palazzo della Ragione che furono però realizzati in un secondo soggiorno.

Gli affreschi residui della Basilica di Sant’Antonio (Stigmate di San Francesco, Martirio di Francescani a Ceuta, Crocifissione e Teste di Profeti) sono, per quel poco che è possibile intuire, frutto del lavoro dei collaboratori e molto simili tecnicamente a quelli della successiva Cappella della Maddalena della Basilica inferiore di Assisi.

Gli affreschi perduti del Palazzo della Ragione, terminato nel 1309, sono citati in un libello del 1350, la Visio Aegidii Regis Patavi del notaio Giovanni da Nono, che li descrive con toni entusiastici, testimoniando che il soggetto astrologico del ciclo era tratto da un testo molto diffuso nel XIV secolo, il Lucidator, che spiegava i temperamenti umani in funzione degli influssi degli astri.

Padova era al tempo un centro universitario culturalmente molto fervido, luogo d’incontro e di confronto tra umanisti e scienziati e Giotto è partecipe di questa atmosfera.

Anche i pittori dell’Italia del nord subirono l’influenza di Giotto: Guariento, Giusto de’ Menabuoi, Jacopo Avanzi e Altichiero fusero infatti il suo linguaggio plastico e naturalistico con le tradizioni locali.

Resta invece intatto il ciclo di affreschi con Storie di Anna e Gioacchino, di Maria, di Gesù, Allegorie dei Vizi e delle Virtù e Il Giudizio Universale della Cappella di Enrico Scrovegni dipinta tra il 1303 e il 1305.

L’intero ciclo è considerato un capolavoro assoluto della storia della pittura e, soprattutto, il metro di paragone per tutte le opere di dubbia attribuzione giottesca, visto che sull’autografia del maestro fiorentino in questo ciclo non ci sono dubbi.

Gli affreschi della Cappella dell’Arena di Padova sono fondamentali per la conoscenza dell’arte giottesca perché sono quelli in cui l’autografia e la datazione sono certe e dove il ricorso agli aiuti è limitato all’esecuzione delle idee del maestro.

Nella Cacciata di Gioacchino dal tempio si riscontrano alcuni elementi tipici dell’arte di Giotto: ambientazione architettonica in prospettiva intuitiva, nella quale si dispongono i personaggi, resa delle figure umane realistica e non stilizzata, eloquenza di gesti e espressioni, vivace narrazione, solennità senza fronzoli della composizione, presenza di linee di forza che guidano l’occhio dell’osservatore.

Enrico Scrovegni nobile patavino acquistò il terreno nel 1300, nel 1302 cominciò la costruzione della cappella che si trovava a ridosso del palazzo di famiglia poi distrutto.

Nel 1304 il Papa Benedetto XI promulgava un’indulgenza in favore di coloro che l’avessero visitata.

L’edificio fu consacrato proprio nel 1305 e presumibilmente gli affreschi dovevano essere ormai terminati per quella data. Giotto dipinse l’intera superficie con un progetto iconografico e decorativo unitario, ispirandosi alla “leggenda Aurea” di Jacopo da Varazze e alle Meditazioni sulla vita di Gesù dello Pseudo-Bonaventura.

Dipinse, dividendolo in 37 scene, un ciclo incentrato sul tema della salvezza che parte dalla storia di Gioacchino ed Anna e prosegue con quelle di Maria e Gesù lungo le pareti e termina col Giudizio Universale della controfacciata.

Sullo zoccolo in basso alcuni specchi in finto marmo si alternano a figure monocrome simboleggianti i Vizi e le Virtù.

Nella cappella, la pittura di Giotto dimostrò una piena maturità espressiva: la composizione rispettava il principio del rapporto organico tra architettura e pittura ottenendo il risultato di un complesso unitario, i riquadri sono tutti di identica dimensione, i partimenti decorativi, le architetture simulate ed i due finti coretti prospettici che simulano un’apertura sulla parete, sono tutti elementi che obbediscono ad una visione unitaria, non solo prospettica ma anche cromatica; domina infatti il blu intensissimo della volta che si ripete in ogni scena.

Rispetto agli affreschi di Assisi si notano molti progressi: le figure sono solide e voluminose e rese ancora più salde dalle variazioni cromatiche, i toni dei colori si schiariscono nelle zone sporgenti.

Alcuni accorgimenti tecnici arricchiscono di effetti materici tutto l’ambiente: Stucco lucido o stucco romano fu usato per i finti marmi; Parti metalliche furono inserite nell’aureola del Cristo Giudice nel Giudizio; Alcune tavole lignee furono inserite nel muro; Venne usato l’encausto nelle figure a finto rilievo.

Ci sono numerose citazioni dall’arte classica e dalla scultura gotica francese, incentivata dal confronto con le statue sull’altare di Giovanni Pisano, ma, soprattutto, una maggiore espressività negli sguardi intensi dei personaggi e nella loro gestualità.

Lo stile di Giotto si evolse tramite la ricerca di una pittura capace di rendere l’umanità dei personaggi sacri.

Tra i brani più suggestivi ci sono gli ambienti naturali e le architetture costruite come vere e proprie scatole prospettiche, che a volte vengono ripetute per non contraddire il rispetto dell’unità di luogo, come la casa di Anna, o il Tempio la cui architettura è ripetuta identica anche se ripresa da diverse angolature.

Molte sono le notazioni narrative ed i particolari, anche minori, di grande suggestione, gli oggetti, gli arredi le vesti che rispecchiano l’uso, la moda del tempo.

Alcuni personaggi sono veri e propri ritratti a volte caricaturali che danno il senso della trasposizione cronachistica della vita reale nella rappresentazione sacra.

Nel Museo civico di Padova è conservato una Croce dipinta proveniente dall’altare della cappella degli Scrovegni, raffinatissima per la ricchezza decorativa dei colori smaltati e per l’andamento sagomato del supporto dal disegno gotico, oltre che per il realismo nella figura del Cristo e nell’atteggiamento sofferente di Maria e di San Giovanni nei tabelloni laterali.

Tra il 1306 ed il 1311 fu di nuovo ad Assisi per eseguire gli affreschi della zona del transetto della Basilica inferiore che comprendono: le Storie della Vita di Cristo, le Allegorie francescane sulle vele, e la Cappella della Maddalena.

In realtà la mano del maestro è quasi assente e per le numerose commissioni lasciò la stesura a personalità della sua cerchia.

La commissione fu del Vescovo Teobaldo Pontano in carica dal 1296 al 1329, e il lavoro si protrasse per molti anni coinvolgendo numerosi aiuti: Parente di Giotto, Maestro delle Vele e Palmerino di Guido (quest’ultimo citato assieme al maestro in un documento del 1309 in cui s’impegna a pagare un debito).

La seconda presenza di Giotto nella città umbra inizierebbe nel 1305-1306 e durerebbe fino al 1311 cioè dopo il soggiorno padovano per dipingere la Cappella della Maddalena dove è ritratto il committente Teobaldo Pontano vescovo dal 1296 al 1329.

La storia è tratta dalla Legenda aurea di Jacopo da Varazze; per la Maddalena i Francescani avevano un culto particolare.

Giotto trasportò ad Assisi i progressi fatti a Padova, nelle soluzioni scenografiche e nella spazialità, nella tecnica e, soprattutto, nella qualità dei colori chiari e caldi.

Agli episodi della vita di Maddalena vennero aggiunti quelli di Marta e di Lazzaro.

Le Allegorie Francescane occupano le vele della volta del transetto: Povertà, Castità, Obbedienza, la Gloria di San Francesco e le scene del ciclo della Vita di Cristo sono disposte lungo le pareti e le volte del transetto destro.

Un documento del 4 giugno del 1309 testimonia la presenza dell’artista in città insieme all’aiuto Palmerino di Guido ma i collaboratori erano sicuramente numerosi viste le dimensioni dell’impresa.

La vivacità delle scene, le soluzioni scenografiche e spaziali di ampio respiro ed alcune citazioni dirette del ciclo padovano hanno messo d’accordo studiosi e critici sull’appartenenza del progetto generale degli affreschi a Giotto, ma la realizzazione pittorica fu delegata ai membri della bottega, le cui identità sono ancora celate dietro nomi come Parente di Giotto, Maestro delle Vele e Maestro della Cappella di San Nicola, Maestro Espressionista di Santa Chiara.

Alcuni di questi seguaci, probabilmente umbri, diffusero lo stile giottesco nelle chiese della zona.

Nel 1311 era già tornato a Firenze, ci sono anche documenti del 1314 relativi alle sue attività economiche extra pittoriche.

La presenza a Firenze è sicuramente documentata negli anni 1314, 1318, 1320, 1325, 1326 e 1327.

Nel 1327, in particolare, si iscrisse all’Arte dei Medici e Speziali che, per la prima volta, accoglieva i pittori.

Nel 1313, in una lettera, incaricò Benedetto di Pace di recuperare le masserizie presso la proprietaria della casa affittata Roma; il documento è la testimonianza del terzo soggiorno romano, avvenuto entro l’anno in cui eseguì il Mosaico della Navicella degli Apostoli per il portico dell’antica Basilica di San Pietro in Vaticano su commissione del Cardinale Jacopo Caetani Stefaneschi, arciprete e benefattore della Basilica oltre che Diacono di San Giorgio al Velabro, che lo pagò ben duecento fiorini e, per l’occasione, compose dei versi da inserire nel mosaico.

La lunetta della Navicella doveva fare parte di un ciclo musivo più ampio.

La lunetta venne ampiamente rifatta e oggi parrebbe originale dell’epoca di Giotto solo un angelo.

Una copia fu disegnata da due artisti del Quattrocento, Pisanello e Parri di Spinello, e si trova al Metropolitan Museum of Art di New York.

Due tondi con i volti di angeli, facenti parte del ciclo, sono conservati rispettivamente: alla chiesa di San Pietro Ispano di Boville Ernica (Frosinone) e nelle Grotte vaticane.

Dai disegni, fatti prima della sua distruzione, si può ricostruire la composizione: raffigurava la barca degli apostoli in piena tempesta, sulla destra Pietro salvato da Cristo mentre a sinistra si vedeva una città turrita.

Il soggetto era ispirato da opere tardo-antiche e paleocristiane, che Giotto aveva avuto sicuramente occasione di vedere a Roma, alimentando un rapporto di dialogo continuo col mondo classico.

I due tondi sono realizzati con una tecnica identica a quella delle botteghe romane della fine del duecento e, probabilmente, sono opera di maestranze locali che eseguirono i cartoni dell’artista fiorentino il cui stile è riconoscibile dalla solidità del modellato dall’aspetto monumentale delle figure.

Roma fu una parentesi in un periodo nel quale Giotto risiedette soprattutto a Firenze.

In questo periodo dipinse le opere della sua maturità artistica come la Maestà di Ognissanti, la Dormitio Virginis della Gemäldegalerie di Berlino, la Croce di Ognissanti.

Nella Dormitio Virginis riuscì ad innovare un tema ed una composizione antica grazie alla disposizione dei personaggi nello spazio.

Il Crocifisso di Ognissanti, ancora in loco, fu dipinto per gli Umiliati ed è simile alle analoghe figure di Assisi tanto che si è pensato al cosiddetto Parente di Giotto.

La Maestà degli Uffizi va confrontata con due celebri precedenti di Cimabue e Duccio di Boninsegna, nella stessa sala del Museo, per comprenderne la modernità di linguaggio.

Il trono di gusto gotico in cui si inserisce la figura possente e monumentale di Maria è disegnato con una prospettiva centrale, la Vergine è accerchiata da una schiera di Angeli e da quattro santi che si stagliano evidenziandosi plasticamente dal fondo oro.

Nel 1318, secondo quanto attesta Ghiberti, cominciò a dipingere quattro cappelle ed altrettanti polittici per quattro diverse famiglie fiorentine nella chiesa dei francescani di Santa Croce: la Cappella Bardi (Vita di San Francesco), la Cappella Peruzzi (Vita di San Giovanni Battista e di San Giovanni Evangelista più il polittico con Taddeo Gaddi), e le perdute Cappelle Giugni (Storie degli Apostoli) e Tosinghi Spinelli (Storie della Vergine) di cui rimane l’ Assunta del Maestro di Figline.

Di queste cappelle tre erano situate nella zona alla destra della cappella centrale e una in quella alla sinistra: restano solo le prime due a destra: le Cappelle Bardi e Peruzzi.

La Cappella Peruzzi, con gli affreschi della Vita di San Giovanni Battista e di San Giovanni Evangelista, ebbe una grande considerazione anche nel Rinascimento; lo stato di conservazione attuale è fortemente compromesso da diversi fattori succedutisi nel tempo, ma non impedisce di vedere la qualità delle figure rese plasticamente da un attento uso del chiaroscuro e caratterizzate dallo studio approfondito dei problemi di resa e rappresentazione spaziale.

I brani più suggestivi sono le stupende architetture degli edifici contemporanei dilatati in prospettiva che continuano, anche, oltre le cornici delle scene fornendo un’istantanea dello stile urbanistico del tempo di Giotto.

All’interno di queste quinte prospettiche, si sviluppano le storie sacre composte in maniera calibrata nel numero e nel movimento dei personaggi.

Le architetture sono inoltre disposte in maniera più espressiva, con vivi spigoli che forzano alcune caratteristiche delle scene.

Si nota un’evoluzione dello stile di Giotto, con panneggi ampi e debordanti come mai visto prima che esaltano la monumentalità delle figure.

La sapienza compositiva di Giotto divenne motivo di ispirazione per artisti successivi come ad esempio Masaccio per gli affreschi della Cappella Brancacci nella Chiesa del Carmine (che copiò per esempio i vecchioni nella scena della Resurrezione di Drusiana) e Michelangelo ben due secoli dopo, che ne copiò varie figure.

Dalla stessa cappella proviene il Polittico Peruzzi che fu smembrato e disperso in diverse collezioni fino al ricongiungimento nell’attuale collocazione presso il Museum of Art di Raleight (North Carolina) che rappresenta la Madonna con figure di Santi tra cui i due Giovanni e San Francesco, lo stile figurativo è simile a quello della cappella anche se i santi sono inseriti in un contesto neutro e non ricco di elementi decorativi ma, comunque, molto saldi nella loro volumetria.

L’altra Cappella di Santa Croce è la Bardi che narra episodi della Vita di San Francesco e figure di Santi francescani.

Fu stata recuperata nel secolo scorso dopo uno scialbo operato nel Settecento ed è interessante notare le differenze stilistiche con l’analogo ciclo assisiano di più di 20 anni prima, a fronte di un’iconografia sostanzialmente identica.

Giotto preferì dare maggiore importanza alla figura umana, accentuandone i valori espressivi, probabilmente, per assecondare la svolta in senso pauperistico dei Conventuali operata in quegli anni.

Il santo appare insolitamente imberbe in tutte le storie. Le composizioni sono molto semplificate (c’è chi parla di “stasi inventiva” del maestro), ed è la disposizione delle figure a dare il senso della profondità spaziale come nel caso delle Esequie di San Francesco.

Più notevole è però la resa delle emozioni con gesti eloquenti, come quelli dei confratelli che si disperano davanti alla salma distesa, con gesti ed espressioni incredibilmente realistici.

iSull’altare della Cappella Baroncelli (poi affrescata da Taddeo Gaddi) è situato il Polittico databile al 1328, mancante della cuspide che si trova nella Timken Art Gallery di San Diego (California), mentre la cornice originale è stata sostituita da una quattrocentesca.

Il soggetto rappresentato è l’ Incoronazione della Vergine attorniata da un’affollata Gloria di Angeli e Santi.

Il ricorso agli aiuti per l’esecuzione è ampio, c’è un accentuato gusto scenografico e cromatico creato da un’infinità di tinte finissime, ma minore profondità visto che lo spazio è riempito di figure che sono varie sia per le tipologie dei volti che per le espressioni.

Di questo periodo sono conservate molte altre tavole giottesche, spesso parti di polittici smembrati, nei quali si presenta sempre il problema dell’autografia che non è mai sicura.

Una delle più dibattute in questo senso è la Croce dipinta di San Felice di Piazza.

Il Polittico di Santa Reparata è attribuito al Maestro con la collaborazione del Parente di Giotto, il Santo Stefano della Collezione Horne di Firenze è probabilmente opera autografa e viene associata come resto di un’unica opera a due frammenti: il San Giovanni Evangelista e il San Lorenzo entrambi del Museo Jacquemart-André di Chalis (Francia) e la bellissima Madonna col Bambino della National Gallery di Washington.

In vari musei sono sparse anche tavolette di piccole dimensioni: la Natività e Adorazione dei Magi del Metropolitan Museum of Art di New York (simile alle scene di Assisi e Padova), la Presentazione di Gesù al Tempio (Boston, Isabella Stewart Gardner Museum), l’Ultima Cena, Crocifissione e Discesa al Limbo della Alte Pinakothek di Monaco, la Deposizione della Collezione Berenson a Firenze e la Pentecoste (National Gallery di Londra), che secondo lo storico Ferdinando Bologna faceva parte di un polittico ricordato dal Vasari a Sansepolcro.

Il 1320 è l’anno del Polittico Stefaneschi (Musei Vaticani), commissionato per l’altare maggiore della Basilica di San Pietro dal cardinale Jacopo Stefaneschi, che incaricò Giotto anche di decorare la tribuna dell’abside di San Pietro con un ciclo di affreschi perduto nel rifacimento del XVI secolo.

Il polittico venne ideato dal maestro, ma dipinto insieme agli aiuti, ed è caratterizzato da una grande varietà cromatica a scopo decorativo; l’importanza del luogo a cui era destinata imponeva l’uso del fondo oro dal quale le figure monumentali si stagliano con grande sicurezza.

Dipinto su entrambi i lati rappresenta sul verso il Cristo in trono con i martiri di San Pietro e di San Paolo (simboli della Chiesa stessa), sul recto San Pietro in Trono, negli scomparti e nelle predelle la Vergine col bambino in Trono con diverse figure di Santi e Apostoli.

Secondo Vasari, Giotto sarebbe rimasto a Roma sei anni, eseguendo poi anche commissioni in molte altre città italiane, fino alle sede Papale di Avignone.

Il biografo aretino citò anche opere non giottesche, ma comunque descrisse un pittore moderno, impegnato su diversi fronti e circondato da molti aiuti.

In seguito tornò a Firenze, dove affrescò la già menzionata Cappella Bardi.

Poco prima della sua partenza da Firenze nel 1327, l’artista si iscrisse per la prima volta all’Arte dei Medici e Speziali insieme agli allievi più fedeli Bernardo Daddi e Taddeo Gaddi che lo seguirono nelle ultime imprese.

Napoli Nel 1328, dopo aver terminato il Polittico Baroncelli, venne chiamato dal re Roberto d’Angiò a Napoli e vi rimase fino al 1333, insieme alla nutrita bottega.

Il Re lo nominò “famigliare” e “primo pittore di corte e nostro fedele” (1333), ovvero pittore di corte, a testimoniare l’enorme considerazione che Giotto aveva ormai raggiunto.

Gli assegnò anche uno stipendio annuo.

La sua opera è molto ben documentata (ne rimane il contratto, utilissimo per conoscere come era strutturato il lavoro nella sua bottega), ma a Napoli rimane oggi molto poco dei suoi lavori: un frammento di affresco raffigurante la Lamentazione sul Cristo Morto in Santa Chiara e le figure di Uomini Illustri dipinte negli strombi delle finestre della Cappella di Santa Barbara in Castelnuovo, che per disomogeneità stilistiche sono attribuibili ai suoi allievi.

Molti di questi divennero affermati maestri a loro volta diffondendo e rinnovando il suo stile nei decenni successivi (Parente di Giotto, Maso di Banco, Taddeo Gaddi, Bernardo Daddi).

La sua presenza a Napoli fu importante per la formazione dei pittori locali, come il Maestro di Giovanni Barrile, Roberto d’Oderisio e Pietro Orimina.

A Firenze, intanto, agiva come procuratore del padre il figlio Francesco, che venne immatricolato nel 1341 nell’arte dei Medici e Speziali.

Dopo il 1333 si recò a Bologna, dove rimane il Polittico firmato proveniente dalla chiesa di Santa Maria degli Angeli, su fondo oro, con lo scomparto centrale raffigurante la Madonna in Trono e sui laterali San Pietro, l’Arcangelo Gabriele, Michele Arcangelo e San Paolo, tutte figure solide, come consuetudine in questa fase ultima della sua attività, dai panneggi fortemente chiaroscurati, dai colori brillanti e con un linguaggio che lo avvicina alla cultura figurativa padana come nella figura di Michele Arcangelo che ricorda gli angeli di Guariento.

Non resta traccia, invece, della presunta decorazione della Rocca di Galliera del legato pontificio Bertrando del Poggetto, ripetutamente distrutta dai bolognesi.

Opere tarde Sulla scia di queste considerazioni è possibile collocare nella fase ultima della sua carriera altri pezzi erratici come: la Crocifissione di Strasburgo (Museo Civico) e quella della Gemäldegalerie di Berlino.

Trascorse gli ultimi anni lavorando anche come architetto, quasi sempre a Firenze dove è nominato il 12 aprile del 1334 Capomaestro dell’Opera di Santa Reparata (cioè dei cantieri aperti in piazza del Duomo) e soprintendente delle opere pubbliche del Comune.

Per questo incarico percepiva uno stipendio annuo di cento fiorini.

Secondo il Giovanni Villani cominciò il 18 luglio dello stesso anno il lavoro di fondazione del Campanile del Duomo che diresse fino alla costruzione dell’ordine inferiore con i bassorilievi.

Prima del 1337, data della morte, andò a Milano presso Azzo Visconti, ma le opere di questa fase sono tutte scomparse.

Rimase però traccia della sua presenza soprattutto nell’influenza esercitata sui pittori lombardi del Trecento, come la Crocifissione della chiesa di San Gottardo in Corte.

L’ultima opera fiorentina terminata dagli aiuti è la Cappella del Podestà del Bargello, dove è presente un ciclo di affreschi, oggi in cattivo stato di conservazione (anche per errati restauri ottocenteschi), che raffigura Storie della Maddalena ed Il Giudizio Universale.

In questo ciclo è famoso il più antico ritratto di Dante Alighieri, dipinto senza il tradizionale naso aquilino.

Morì l’8 gennaio del 1337 (il Villani riporta la data della morte avvenuta alla fine del 1336 secondo il calendario fiorentino) e venne sepolto in Santa Reparata con una cerimonia solenne a spese del Comune.